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MARIE CLAIRE ITALIA

Segnali di luce - Incontro un po’ astratto, ma molto concreto, con Isabella Ferrari

di Sara del Corona

 

Il sole picchia nel cortile dell'Hotel de Russie. Fuori, i turisti hanno le flip flop e le vesciche, sono alle prese con la prima vera sudata di stagione, ma lei no. La sua camicetta di seta è perfettissima, e resterà tale fino alla fine. A questa calura di Roma («una città che ammazza un cavallo, di cui continuo a non possedere e non volere le chiavi. Però quando ci torno, magari dopo una visita a Parigi, mi sembra di essere al luna park») non dà importanza. Si limita a spostarsi di sedia, inseguendo l'ombra un po' tirchia fornita da un ombrellone quadrato. Intanto parla. Qua e là le sfugge la concentrazione, ma la riacciuffa con mestiere. Questo dei suoi 50 è un anno sabbatico «perché a un certo punto devi mettere in ordine delle cose importanti». Quindi niente teatro, che è un amore recente «conquistato con le unghie e coi denti, in tre anni ho fatto più di 400 spettacoli. Il trolley, la sua ombra che ti accompagna ovunque, e quel disturbo che puoi avere a recitare sul palco un giorno, e che sparisce il giorno dopo...». E niente cinema. C'è tutto il tempo di scegliere le parole con calma, anche se «sì, lo so, sono sempre un po' astratta quando faccio le interviste, parlo in maniera confusa, del resto scrivo in maniera confusa, riempio pile di moleskine di pensieri, pezzi di libri. Ne ho un baule pieno e questa sarà la mia eredità a tutti voi» (ride). Il suo viso è una specie di distillato, di “eau extreme” di quello, diciassettenne, in Sapore di mare. Uguale ma diverso da quello in Romanzo di un giovane povero di Ettore Scola, per cui vinse la Coppa Volpi. Più etereo di quello ne La lingua del santo di Carlo Mazzacurati e in Caos calmo. Ha già perso la milanesità un po' vacua del suo personaggio in La grande bellezza, e a ottobre lo vedremo ancora cambiato per La vita oscena, diretto dal marito Renato De Maria, con cui l'ha prodotto «a bassissimo costo. Ma con pochi soldi si può sprigionare una grande energia creativa, come nel dopoguerra, e noi siamo in un dopoguerra. Con segnali di ripresa. Lo sa che Franceschini ha appena raddoppiato il tetto massimo per il tax credit in favore delle produzioni cinematografiche?». Il film è tratto dal romanzo autobiografico di Aldo Nove, e lei interpreta la madre, una hippy «che tra l'altro aveva questo modo così libero di associare forme e colori. Ho amato il ruolo: se per un periodo della mia vita aprivo l'armadio ed era tutto nero vorrà dire qualcosa, o no?». È stata la frequentazione assidua di Aldo Nove in quel periodo a far nascere l'idea di un libro (Isabella Ferrari - Forma/Luce, edito da Drago in collaborazione con Bulgari) che sarà presentato il 13 luglio, durante Altaroma, agli Horti Sallustiani. «È un progetto che non racconta niente del mio percorso d'attrice, e questo già mi piace moltissimo. Vuole sapere come è venuto fuori? Conosco Max (Cardelli, fotografo, ndr) da una vita e una volta ci siamo detti massì, facciamo degli scatti per giocare un po' Siamo andati a Sabaudia due giorni sulla spiaggia, senza nessun giornale d'appoggio, non dovevamo piacere a nessuno. Il sole non c'era o se arrivava se ne andava, la luce cambiava in continuazione. Era maggio, il mare era agitato, c'era il vento. Il tutto in quella solitudine del mare e del mio corpo. È venuto fuori qualcosa di unico e tornando a casa ho mostrato le foto ad Aldo, gli ho chiesto che gli venisse in mente. Mi ha detto “non so, tutte le donne del mondo. Tutta la femminilità che non sottostà al genere maschile”. E mi ha buttato lì un po' di nomi. Giovanna d'Arco, Marilyn Monroe, Emily Dickinson... Ci ha lavorato un po' e sono venute fuori le prime poesie su di loro. Man mano che il progetto si è completato di nomi, da Saffo a Cabiria, da Aung San Suu Kyi a Leni Riefenstahl, ho deciso che volevo diventasse un libro. E visto che in quel periodo sono anche diventata ambasciatrice per l'Italia di Save the Children, mi è molto piaciuto girare il mio ricavato a questa ong e dedicarlo alle madri di tutti i bambini». Nei molti discorsi che affronta con generosità guardinga, la maternità spunta di frequente, come se fosse al cuore del suo baricentro, un punto di partenza e di arrivo, e soprattutto un mistero. «La notte che si sono rotte le acque per la mia prima figlia, non so come dire, mi sono fatta bella per andare a questo evento, una cosa ancestrale. Mi ricordo esattamente la luce che filtrava da quella finestra. Non riesco a pensare a un altro evento così gigantesco. Adesso? Se c'è una cosa che non ho capito, in senso generale, è come ci si debba porre con i figli (Giovanni di 13, Nina di 16 e Teresa di 19 anni). Come entrare nella relazione con loro. Faccio un po', ormai, come si chiamano quei cosi... Il pungiball, quindi sto lì, non prendo quasi posizione, ho paura di dire no e anche di dire sì, perché magari non sono dei sì giusti. Questo è veramente il mio verso più complicato e mi viene voglia di salvare tutte le madri del mondo perché lì si gioca l'amore più grande». Ce n'è un altro, di evento enorme nella sua vita: «la morte di mio padre, 5 anni fa. Lo accompagnavo già da un po', ma non ci siamo tenuti la mano tutta la vita, ci si è detti qualcosa anche di troppo, e ho dovuto decidere se questo troppo era davvero troppo, insomma non posso nascondermi dietro la mia verità. In quei giorni ho rivissuto la mia vita ma ho visto cose che probabilmente non sarei riuscita a scorgere altrimenti. Mi ha tranquillizzato sapere che l'ho fatto, sono riuscita a compiere il percorso. Perché si può anche scappare». O farsi risucchiare. Due condizioni inaccettabili quasi sempre, a maggior ragione se tendi ad avere il controllo di tutto. Che è uno dei motivi, il controllo, per cui la felicità a Isabella Ferrari interessa relativamente («come dice Virginia Woolf, è così adiacente alla malinconia che non si capisce mai bene la differenza») rispetto alla possibilità di sconfiggere quei «facili e pericolosi up and down». Insomma meglio l'equilibrio, che trova nell'analisi («un mezzo in cui vado e torno come mi pare») ma soprattutto in «cose fisiche. Quanto mi piace andare in palestra, fare yoga, respirare e poi camminare a villa Ada con mio marito. Il nostro tête-à-tête è la camminata, un'ora e mezza almeno in qualsiasi posto ci troviamo, è lì che si consuma insieme una specie di apertura sulla vita, sulla quotidianità. Vede? Chissà cosa uno pensa di dover fare, e invece è tutto semplice semplice». Addenta una patatina, «ma fa mangiare solo me?». Si parla ancora e dopo un'oliva viene fuori che non tutte le cose semplici semplici sono facili. Per esempio lei non sa giocare. «Ma da sempre, mai giocato neanche con le bambole, e se non lo impari da piccola poi non lo sai fare da adolescente, e coi miei figli non ho uno spazio ludico. Però a 50 anni voglio imparare. Mi sto dando da fare, per ora sono gran partite a briscola con mio figlio, lo facevo con mio padre, e ritrovarmi di nuovo in cucina con le carte mi va tantissimo». Va bene, un due tre stella può aspettare, ma se li è goduti lo stesso gli anni 80, o no? «Ce n'erano tanti tipi, io non so veramente quali ho vissuto, ero sempre dentro una commedia iconica degli anni 80 e sì, mi divertivo. Non so se era solo che venivamo dagli anni 70, ma c'era un'esplosione libera e gioiosa. Se guardo i 19enni di adesso, che stanno lì intorno a un tavolo a prendersi l'aperitivo, non sanno dove andare, come muoversi. Mi fanno tenerezza».

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