IMAGE MAG
L’ONESTA’ DEL TEMPO
by Mosè Franchi
Avevamo già conosciuto Max Cardelli, anni prima a casa sua, in Porta Venezia. Ricordiamo che ci mostrò una splendida Polaroid, mentre consumavamo un caffè, in cucina.
Ne è passato di tempo: giorni e anni lasciati all’attesa, per un incontro che comunque sarebbe avvenuto, viste le premesse. Ecco quindi un dialogo che riprende, consapevole e vero; figlio di una stagionatura necessaria, che poi è della vita.
Il tema del tempo ricorre nelle parole di Max: quasi lo esige, per se stesso e la sua fotografia. E’ necessario per comprendere, magari riscoprendosi; cercando quelle affinità che coagulano il senso di quanto si vuole esprimere. I ritratti che ci propone mostrano quasi dei volti di fratelli e sorelle: accomunati non per sembianze estetiche, ma dall’attesa che li ha portati alla luce.
In questo contesto, anche il processo fotografico diventa importante, soprattutto se vissuto con la lentezza necessaria. Emerge quindi un analogico di classe, che Max cura personalmente, inattaccabile per qualità e valore. Occorre però tanta fiducia nello strumento, perché la chimica ha una sua autonomia e agisce da sola, con un’inerzia fatta anch’essa di tempo.
Giorni e anni vanno usati bene: questa è la sentenza dell’incontro (telefonico, purtroppo) con Max Cardelli. Bisogna evitare di lasciarsi travolgere dall’ultimo minuto, dal “subito”, da un “vedere” che non c’è se non a cose fatte. E poi, meglio sarebbe abbandonare il privilegio del bottone che risolve, spinto mentre si abita il piedistallo dell’ego. Il tempo, sempre lui, è l’arbitro del divenire, perché porta con sé conoscenza e verità. Onestà, appunto.
D] Max, quando hai iniziato a fotografare e perché?
R] Ho iniziato presto, a 12-13 anni con una Polaroid. Da subito ho approcciato la Camera Oscura, perché stampavo per il fotografo del paese. Tempo dopo, al liceo, cominciai a vendere le mie fotografie; per lo più si trattava di ritratti dei compagni di scuola, volti quindi. Mi piaceva il ritratto. Al termine delle superiori, con la scuola di fotografia è partito tutto.
D] La tua è stata passione per la fotografia?
R] Sì, immediata: di quelle che non ti fanno tornare indietro.
D] E’ stata importante?
R] La passione è un’arma a doppio taglio: t’indirizza, ma diventa un impegno; comporta sacrifici, gioie e dolori, responsabilità verso se stessi.
D] Quando è iniziata la professione?
R] Ai tempi dell’Università (studiavo Scienze Politiche) facevo l’assistente. Era difficile, perché in quegli anni tutti gli stranieri venivano in Italia, ma pian piano sono riuscito a offrire continuità alla mia attività di affiancamento. Dopo un po’ di anni, terminati gli studi (avevo frequentato anche l’Istituto Europeo di Design), mi trovai di fronte a uno scenario complicato, difficile. I giornali erano chiusi ed io lottavo contro i debiti, portando avanti mille lavori. Stavo sbattendo la testa contro il muro. Un giorno, un amico mi chiama a New York: dopo una settimana lavoravo come fotografo.
D] In che ambito operavi?
R] Fotografo di moda, per Condé Nast USA. Quando tornavo in Italia, tutte le porte erano aperte.
D] Ti piaceva la moda?
R] Non sono mai stato un fotografo di moda dai canoni classici. Apprezzavo il fatto di poter raccontare una storia attraverso un redazionale di dodici pagine: quasi si trattava di cinema in fotografia. I vestiti non hanno mai scosso le mie corde, ma una certa cultura sono riuscito a costruirla, per forza di cose. La gestualità ha ampliato la mia conoscenza.
D] Adesso non lavori più nella moda …
R] Ne faccio poca. Prediligo le storie che mi appassionano. Diciamo che col tempo è cambiato un po’ tutto. Sono tornato al ritratto, anche se poi non l’avevo mai abbandonato del tutto, perché si trattava del mio primo amore. E arrivato anche il paesaggio, quello degli attimi che si allungano, della lentezza. Con la fotocamera, nel bosco puoi fare quello che vuoi: alle volte basta aspettare.
D] Ti definiresti ritrattista?
R] Preferirei chiamarmi fotografo. Non amo la specializzazione spinta, anche se capisco che debba esistere. Ciò che conta è la sensibilità. Mi piace l’empatia che sviluppa mentre si scatta un ritratto, quasi da seduta psicoanalitica. Il rapporto tra soggetto e fotografo diventa magico, soprattutto con gli artisti.
D] Qual è la qualità più importante che un fotografo come te deve possedere?
R] Di base, l’amore per ciò che si fa; poi occorre informarsi, studiare, comprendere, mettere in moto la curiosità, buttando via l’ego (che non conta). Lo sguardo deve essere generale, infantile quasi. Se arrivi a collocarti su un piedistallo, tutto crolla. Deve vincere l’onestà.
D] Max, hai avuto degli elementi ispiratori? Ci sono stati dei fotografi che ti abbiano influenzato?
R] Sì, da ragazzo apprezzavo molto Josef Sudek; poi sono arrivati i ritrattisti: Avedon e Penn in testa. Il bianco e nero mi ha spinto verso la stampa al platino, che pratico da qualche anno. Ho aperto un laboratorio dove uso quella metodica, in tutti i formati: fino al 20X25. La Platinotipia è una malattia.
D] Quale formato prediligi?
R] Scatto un po’ con tutti i formati: possiedo anche una Contax a pellicola. Amo il 20X25 e pure la grana del 35mm. Ovviamente uso il digitale, ma ho sempre con me delle fotocamere a pellicola.
D] Qualche rimpianto per la pellicola?
R] No, non sono un nostalgico. Mi dispiace che la gente non si accorga della differenza: ci vorrebbe una maggiore educazione visiva.
D] Tra l’altro, tante cose sono cambiate …
R] E’ vero. Bresson scattava sempre col medesimo formato, poi stampava in 24X30. Oggi vedi delle sue opere 2X3 metri. Penso a lui: non sarebbe contento. Per farla breve: piccolo è bello, capace di suggerire meraviglia.
D] Bisognerebbe parlare anche della pastosità, forse pure della tridimensionalità analogica …
R] Della lentezza: lì si è perso molto.
D] Tra bit e celluloide cosa preferisci?
R] Preferisco l’analogico. La sua “pasta” continua a piacermi, a restituirmi emozione. Il digitale può distruggerti, perché la fotografia è un’altra cosa. Si guarda prima la luce, poi l’esposimetro.
D] Prima parlavi di lentezza …
R] La “catastrofe” ha tolto il tempo al fotografo. Una volta si scattava in 1-3 giorni, oggi gli altri vedono prima dell’autore, esprimendo giudizi; che vengono anche dal basso.
D] Dopo tanti anni di carriera, c’è un progetto rimasto indietro e che vorresti portare a termine?
R] Progetti? Tanti, rimasti indietro. Uno di questi è: “Ritratti per 100 attori”; un lavoro che andava avanti da due anni e mezzo. Allestivo il set vicino al camerino, con l’attore ancora in scena; finito il palco, veniva in studio. Si trattava di un momento particolare, con l’interprete ancora immerso nella parte. Il lasso di tempo era breve, non occorreva alcuna parola. Poi venne il Covid: ecco tutto.
D] Il progetto per te è importante?
R] Sì, lo è. Si tratta di un modo per lavorare insieme, per usare un unico pensiero. E’ come scrivere poesie e metterle in comune.
D] Max, c’è un’ottica che usi preferenzialmente? La lente preferita?
R] 50 e 70mm sono due obiettivi che uso. Quasi mai mi oriento su focali più lunghe. All’Avana ho utilizzato un 35mm.
D] C’è, tra le tue, la fotografia preferita? Quella cha ami particolarmente?
R] C’è, ci sono; e sono dei ritratti. E’ una questione di alchimia: ti ricordano cose e anche il momento della tua vita. Le fotografie che scatto per me rappresentano un ricordo.
D] Curi personalmente il ritocco?
R] Vedo di intervenire poco, però me ne occupo personalmente.
D] E in Camera Oscura?
R] Stampo tutto da solo.
D] Perché molti fotografi a fine carriera iniziano a dedicarsi al ritratto?
R] Perché, in buona sostanza, il ritratto rappresenta l’essenza della fotografia. Moda e beauty tolgono e travolgono, il ritratto risulta maggiormente consolidato. Del resto, storicamente la fotografia nasce da lì.
D] B/N o colore? Quale dei due preferisci?
R] B/N sempre. Wim Wenders (regista, ma anche fotografo di talento n.d.r.) diceva: "Il mondo è a colori, ma la realtà è in bianco e nero”.
D] Hai pubblicato dei libri?
R] Sì, ho all’attivo alcune pubblicazioni. Il più importante è “Wonderwomen Portraits 1996-2016”: vent'anni di ritratti femminili fotografati in bianco e nero e a colori. Ho tenuto tanto a quel libro.
D] Fotografia in B/N: c’è per caso il rischio di esprimere un già detto?
R] No, in assoluto: il linguaggio è personale. O. Toscani ha detto: “Non può esservi qualcosa di totalmente nuovo”. In realtà dobbiamo prendere le distanze dalla mania del nuovo. Se qualcosa può aiutarci a non cambiare il vecchio rappresenta pur sempre una novità. Il lavoro, poi, ha sempre una radice individuale. Tutti siamo influenzati da tutto.
D] Potessi dedicarti un augurio fotografico da solo, cosa ti diresti?
R] Vorrei continuare a fotografare, trovando il modo di farlo fino all’ultimo giorno.