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HAVANA’S MANHOLES

di Silvana Turzio

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“Tutti noi che viviamo o che abbiamo vissuto all’Avana
sappiamo che più che una città, è una condizione spirituale.”

A.Fleites e L. Padura Fuentes, Sentieri di Cuba

 

L’Avana è la città più popolata dei Caraibi poiché conta quasi tremilioni e mezzo di abitanti, è la più bella, tanto da essere definita la perla dei Caraibi, è la più antica perchè la sua fondazione risale a più di cinque secoli fa, ha una popolazione mista, tra le più composite al mondo, è la città più importante del paese che a sua volta è considerato la chiave di volta di tutto il Golfo del Messico. Dal 1993 l’Avana è entrata a far parte del patrimonio dell’Umanità. L’Unesco si adopera da allora per restituire al centro storico il suo antico fulgore. È, ciò malgrado, una città con una storia difficile: nell’ultimo secolo ha conosciuto alti e bassi, gloria e splendori, miseria e vergogna, una rivoluzione e una controrivoluzione che hanno provocato una diaspora inarrestabile. All’alba degli anni sessanta la gioventù di mezzo mondo aveva salutato proprio all’Avana una rivoluzione che sembrava dare vita a una nuova democrazia, diretta da leader carismatici come non mai nel novecento. I fatti successivi avrebbero sgretolato speranze e desideri e sempre più velocemente e rovinosamente avrebbero distrutto anche mattone dopo mattone i palazzi barocchi, le case del fronte mare; persino i monumenti dei castristi sarebbero crollati sotto l’umidità marina come le speranze dei cubani sotto i colpi di un ideologia marmorea e funesta. Oggi, dei palazzi e delle case borghesi, delle vie del centro storico, come dei monumenti cementizi al castrismo sempre più invadente e cieco sono rimaste le rovine. Ma chi le vede nel loro devastato abbandono? E chi le racconta? Quali i racconti che danno forza e futuro a questa città? Oggi l’Avana è una città prigioniera del proprio passato. Le scorie arrugginite delle speranze di tutti i cubani che avevano creduto in Fidel e che sono rimasti a Cuba vanno formando da anni un tappeto di opportunismo che serve solo per accogliere un turismo accanito, avido e inconsapevole, cui si aggiunge la feroce allegria di chi sa di avere solo un’ora o al massimo solo un giorno per cogliere l’occasione della vita. Al di là della cartolina dell’isola felice, una specie di barriera colorata che nasconde una realtà di miseria, al di là delle fotografie per i turisti che sbarcano a frotte e che sottolineano il fascino della decadenza dei palazzi barocchi, al di là della musica che freme nelle cadenze del passo cubano, pochi sono coloro che ne hanno descritto la devastazione, pochissimi quelli che l’hanno fotografata senza cedere al mito della Cubanìa da esportare. Tra i pochi, Désirée Dorlon e qui Max Cardelli. La Dorlon ha lavorato tra il 2003 e il 2004 riprendendo soprattutto gli interni a luce naturale e cogliendo perfettamente la forte sensazione di abbandono e di malinconia che emana più dagli arredi che dagli abitanti stessi. Max Cardelli affronta oggi la città con uno spirito simile cercando di raccontare qualcosa di diverso dalle rappresentazioni ufficiali. Guarda la città più che i suoi abitanti, ne coglie le luci e le ombre, individua le intrusioni del potere che hanno modificato l’urbanistica del lungo mare e alcuni luoghi centrali, coglie soprattutto l’indifferenza sovrana degli abitanti nei confronti del luogo del loro vivere. È un racconto fotografico in esterni dove gli abitanti dell’Avana sembrano bloccati in una specie di limbo temporale, tra le rovine di un passato negletto e rifiutato e un presente senza futuro. Tutto questo lo si legge grazie al modo con il quale Cardelli decide il punto di vista e sceglie il momento dello scatto. Sono troppo poche le persone che percorrono le strade lungo case fatiscenti, troppo rarefatte le loro presenze e troppo statiche, troppo stanchi i loro corpi seduti su panchine in cemento o su sedie sghembe, appoggiati alle colonne o curvi verso oggetti arrugginiti, perchè da loro possa emanare un affetto qualsiasi verso questi luoghi: ragazze all’entrata di una scuola, file interminabili di passeggeri che tendono con forza verso un autobus, persone isolate sedute lungo il bordo di una fontana, una coppia che si ignora, lui chiuso nel timbro di un rosso acceso, lei avvolta nelle morbide tonalità calde di marroni e sfumature di nocciola spento. Nemmeno i colori entrano in contatto in questa fotografia, costruita su due momenti tonali, come a sottolineare l’indifferenza dell’uno nei confronti dell’altra. Fotografia magistrale che racconta di una solitudine senza limiti. Il ragazzino che gioca da solo lanciando una pallina quasi invisibile contro un muro corroso diventa emblematico di una situazione assurda, quasi una eco di Blow-up. Ma assurda non è la situazione, assurda è la città, incomprensibile è l’Avana: una città sul punto di essere abbandonata, senza turisti, senza ombra di musiche, senza energia. Un auto solitaria qua e là, di quelle che si vedono solo a Cuba o nei film polizieschi degli anni cinquanta, spunta da strade improbabili come da un set di cartapesta. Anche quando le persone sono in movimento sembrano immobili, come fossero anche loro in un fermo immagine: il bambino che corre si dirige non verso un luogo del gioco ma verso le ciminiere, la macchina che passa in controluce sembra una silhouette in cartone, il ragazzino che si tuffa tra amici che lo contemplano in cerchio, tiene le gambe a elle come la roccia che lo disegna da sotto: ci si scopre a pensare a come diavolo potrà farcela per entrare a candela in acqua. O cadrà invece sulle rocce? Su tutto si stende un velo di umidità apatica, come quella che emana da un’altra immagine forte, quella della donna, addormentata o intontita dal sole, che se ne sta sotto l’ombrellone al riparo dalle mosche e a difesa di latrine disertate. Da queste fotografie trasuda il torpore di un eterno dormiveglia. La sola che potrebbe rivelare al contrario un momento di spensieratezza è quella che riprende i ragazzi che camminano abbracciati tra loro, ma è isolata in un racconto che definisce una situazione di generale oppressione. La natura è forte, energetica e indomabile: il mare è lì, nascosto dal parapetto che lo nasconde alla vista per rivelarsi quando piomba sulla strada con fiotti immensi che si frangono sull’asfalto e rimbalzano come geyser salati. L’Avana di Cardelli non ama il mare - “l’Avana si ostinava a vivere di spalle al mare...” fa dire Leonardo Padura Fuentes a Ernest Hemingway in Addio Hemingway - poco concede alle bellezze naturali e nulla all’idea di erotismo esotico che accompagna il suo mito. Intensa è la violenza delle cose: il reticolo dei fili della luce abbarbicati al muro, il muro sgretolato e fatiscente che è il solo punto di arrivo dell’uomo con la schiena ricurva, le facciate delle case che non sono protette ma aggredite da impalcature più arrugginite del ferro di una nave arenata da decenni. Tutto ciò dialoga con l’immagine dei poliziotti: cosa stanno guardando? E il poliziotto con le braccia sui fianchi, con chi ce l’ha? Con l’uomo che gli cammina davanti, è ovvio. La ripresa fotografica ci dice che è probabile che l’uomo possa scatenare nel poliziotto uno scatto repentino e che venga fermato, come noi pensiamo che il poliziotto in cuor suo spera possa succedere. La immaginiamo bene questa situazione perchè respiriamo sino in fondo l’aria che tira. E l’aria che tira in tutte queste fotografie è aria pesante, non si respira né gioia né tristezza, non vi si legge una qualsiasi pulsione di vita che imprima una progressione verso una fine progettuale. Il racconto fotografico enuncia una presa di posizione narrativa molto precisa: ecco il fuoco che lambisce la strada quasi deserta in una fotografia dal tono apocalittico, il tombino aperto sullo sfondo di un tramonto rosseggiante come in una scena di Fuga da New York. Qui tutto è pronto per un cambiamento, radicale e profondo.

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